La mia dislessia – Philip Schultz, premio Pulitzer
Un viaggio a ritroso tra i segni di una diversità invisibile capace di condizionare pensieri e gesti.
Capire la propria dislessia non è facile; non lo è scoprirla e, tanto meno, spiegarla. È una diversità invisibile; espressa in meccanismi mentali complessi, sovraffollati di immagini e schemi, che faticano ad adattarsi, se non attraverso tortuosi ragionamenti compensatori, al codificato metodo espressivo dell’alfabetizzazione.
Philip Schultz riesce a dare un nome a questa diversità quando ha già cinquantotto anni, riconoscendola attraverso le difficoltà scolastiche di suo figlio; l’ha identificata guardandola negli occhi, i suoi occhi di bambino, angosciati e tristi.
“La mia dislessia” è un viaggio: un percorso a ritroso tra i segni di una differenza percettiva capace di condizionare pensieri e gesti, di alimentare paure e dolore; è un’analisi a posteriori di comportamenti e reazioni, tesa a una nuova comprensione dell’io, più consapevole e sicura delle proprie peculiarità espressive.
Lo seguiamo nei ricordi di una lotta quotidiana, costantemente impegnato nel gestire una strategia di sopravvivenza personale; faticosa e solitaria. È un bambino inerme e spaventato, profondamente segnato dalla sua presunta stupidità, fortemente minato nell’autostima e desideroso di sentirsi degno d’affetto. È un giovane ostinato e scaltro, che supera, dribblando, le difficoltà scolastiche con fatica, ingegno e molta determinazione. È un uomo sofferente e saggio che, più o meno consciamente, sviluppa tattiche mentali alternative per esprimere se stesso; scrivendo e insegnando. Ma quello che ci parla è uno scrittore capace di interrogarsi sul proprio percorso; per offrire, a sé e agli altri, le chiavi di lettura di una diversità tanto destabilizzante, quanto ricca e potente.
“La dislessia non è altro che non-conformismo, l’essenza stessa della diversità. La dislessia è una disabilità che invoca scuse e comprensione, che crea una sua logica alternativa, un mondo a se stante”.
Leggendo, di tanto in tanto, ci ricordiamo che la voce sofferente, messa a nudo nero su bianco, è quella di un premio Pulitzer, ottenuto dall’autore nel 2008 con la raccolta di poesie dal titolo Failure. Potrebbe sembrare sopra le righe, esageratamente ad effetto; ma ogni dislessico sa che la “classe di cretini” in cui Schultz si è sentito e si sente rinchiuso, è sempre dietro l’angolo: negli sguardi di un insegnante o di uno sconosciuto; negli occhi di un genitore, di un amico, di un amante.
Gli scrittori sono gli archeologi della propria anima. Scaviamo fino al fondo solo per scoprire che c’è un altro fondo e poi un altro ancora. Siamo capaci di grande sofferenza e di grandi sacrifici, ma lo scopo di questa lotta è non arrendersi mai. Per molto tempo ho pensato che non sarei riuscito a fare niente della mia vita che potesse essere considerato degno di rispetto e affetto. Non sapevo di avere qualcosa di sbagliato o di diverso nel modo in cui il mio cervello elaborava le informazioni e il linguaggio; credevo che in me ci fosse qualcosa che non andava. Lo penso ancora, a volte. Forse lo penserò sempre.
Philip Schultz dedica il libro a suo figlio Eli; un ragazzo consapevole, fin dalla seconda elementare, della sua “magica natura ibrida”.
È una dedica, ma anche un’esortazione: sappiate riconoscerla.
Philiph Schultz, La mia dislessia. Ricordi di un premio Pulitzer che non sapeva né leggere né scrivere 2015, Donzelli (pp.112 €17,50)
Articolo di Cristiana Bernasconi